Le parole che cambiano la vita

«La psicoterapia consiste in un uso saggio della parola»

(A. Zucchelli)

Una serata del 1985 ascoltavo uno dei maestri che mi hanno aiutato nella conoscenzaNacinelli1 della vita,  G. Nacinelli. Quella volta ci spiegava come, per imparare a portare a termine un obiettivo, fosse utile proporsi di cambiare la calligrafia della zeta. Proponeva di scegliere un modo nuovo, e possibilmente più piacevole, per scrivere la zeta, ultima lettera dell’alfabeto, simbolo della fine del compito, ed impegnarsi a scriverla così, cambiando in parte la calligrafia. Con quel sistema, diceva, si sarebbe ottenuto di modificare il pensiero, orientandolo al portare a termine i compiti prefissati. Ho messo in pratica il suggerimento, ed ha funzionato: nel giro di qualche mese da quando ho cambiato la grafica della mia zeta, senza fatica, ho modificato il mio modo di affrontare gli impegni, e ormai è miaZeta abitudine terminare tutto quello che comincio.

Magia della zeta? No. Magia del pensiero. Se la motivazione ad imparare a smettere di lasciare in sospeso quello che hai iniziato è abbastanza forte da riuscire a ricordarti di usare un nuovo modo per scrivere la zeta, allora ogni volta che scriverai la zeta ricorderai il tuo impegno, e, col tempo necessario, riorganizzerai le abitudini in modo da ottenere il risultato desiderato.

Il metodo funziona con qualsiasi cambiamento: adesso che non si scrive più a penna, ma con la tastiera, si può scegliere l’abitudine di premere il tasto della zeta con l’indice invece che col mignolo della sinistra. Si può cambiare anche l’obiettivo: invece che arrivare a terminare ogni attività iniziata, si può decidere di imparare, per esempio, a zzzStellaCadentej5gnBji1shn04do1_500tenere la contabilità casalinga. L’importante è che l’obiettivo, poi, fornisca dei vantaggi, in modo che prosegua da solo nell’incentivarsi. Su questo principio si fonda anche la tradizione di esprimere un desiderio quando si vede una stella cadente: se il desiderio è talmente forte da superare la sorpresa per l’evento eccezionale, permettendo di esprimerlo invece che urlare “eccola là!“, allora sarà molto probabile che si realizzi, perché significa che tutto il sistema nervoso è orientato a trovare la soluzione, e la conferma della stella cadente ne aumenta la forza.

Il sistema nervoso è sensibile al significato delle parole, perché sono collegate al comportamento: il termine “sbadiglio” è particolarmente legato al bisogno di aprire la sbadigliobocca e deglutire, anche quando lo si legge, e più cerchi di evitarlo, più senti la fatica di impedirti di sbadigliare. Tutte le parole hanno una influenza sul comportamento, perché vi sono legate fin dall’origine: dire “sono stanco” tende ad aumentare la stanchezza, perché isola la sensazione rispetto ad ogni altro aspetto che, comunque, resta presente, ma perde importanza. Così come dire “sei pallido… ti senti bene?” ottiene di far concentrare sulla presenza di problemi, spesso aggravandoli. Per questo, è utile imparare a scegliere le parole, soprattutto per  quanto determinano i pensieri, così come i pensieri determinano le parole: l’interazione è reciproca.

Così, se sei abituato, parlando con gli amici, a direla mia mamma…“, invece, che “mia madre… “, rinforzi i circuiti neuronali legati al tuo sentirti bambino invece che adulto: peterpananche se tutti gli altri comportamenti hanno ormai raggiunto la maturità, quell’aggancio rischia di renderti difficile il raggiungimento degli ultimi passi. Se, come hai visto per la zeta, cominci ad importi di modificare il termine, sostituendo madre a mamma quando ne parli,  ti accorgerai che cambierai anche il modo di affrontare molti altri problemi. Naturalmente, ciascuno può adottare questo sistema sulle parole che si accorge più legate ai problemi che intende affrontare.

Sempre G. Nacinelli, quando teneva le sue lezioni, soleva ripetere che è molto pericoloso dire «non sono capace», quando si affronta un apprendimento nuovo. Come ho avuto modo di constatare, chi si lamenta di non essere capace di fatto finisce per giudicarsi e si pone un limite che, essendo originato da lui stesso, sarà impossibile superare. Il mio paralimpimaestro, quindi, continuava dicendo che, a quella frase, mancava un avverbio, “ancora“: «non sono ancora capace». Aggiungendo “ancora“, l’autodefinizione cambia, e diventa un obiettivo da raggiungere: sembra un trucco, di fatto è una potente leva pedagogica, che suggerisco ad ogni insegnante.

Sulla mia pelle, ho utilizzato questa tecnica in molte occasioni, ma, in particolare, su un argomento molto importante per la mia professione: mi sono allenato a diventare allergico al verbo essere quando usato come predicato nominale riferito ad una persona: praticamente quando esprime un giudizio. «Tizio è cretino!»; «Caio è geniale!»; «Sempronio è nevrotico!». Tre esempi di giudizio che mi sono allenato ad evitare, costringendomi ad aggiungere un punto interrogativo al posto dell’esclamativo, e l’avverbio “forse” prima del nome. «Forse Tizio è cretino?»; «Forse Caio è geniale?»; «Forse Sempronio è nevrotico?». Trasformare i giudizi sulle persone in chiGiudicadubbi permette di lavorare molto meglio: la vita è costante cambiamento, mentre il giudizio fotografa e blocca. La complessità dell’essere umano rende impossibile ogni certezza semplificata in un giudizio, per cui le mie idee sulle persone sono sempre ipotetiche, pronte ad essere modificate, impedendomi di arrivare a congelarle in un giudizio, per complesso che possa essere. Posso giudicare il comportamento, ma non la persona. E penso che questo possa aiutare a vivere meglio.

Pubblicato da

Alessandro Zucchelli

vedi www.sanzuc.it

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