Il bisogno di affetto negli adulti

«Ho sempre avuto fame di affetto, io. E mi sarebbe bastato riceverne a piene mani anche solo una volta. Abbastanza da dire: grazie, sono piena, più di così non ce la faccio. Sarebbe bastato una volta, una sola unica volta»

(Haruki Murakami)

Quando incontri un amico per strada, e gli chiedi “come va?“, c’è chi risponde “bene, grazie, e tu?“, e chi ne approfitta per raccontarti gli ultimi aggiornamenti delle disgrazie psicodiagnosiche gli sono capitate: oggi parliamo di queste persone. Nessuna pretesa di fornire diagnosi: da tempo ho rinunciato a questo strumento, utile quando si tratta di comunicare con un collega, ma ingombrante quando c’è da affrontare un problema, perché ogni persona ha la propria modalità per affrontare la vita, e catalogarla comporta una perdita enorme di dati originali.

È facile intuire che chi racconta le sue disgrazie, di fatto sta mendicando affetto, ma il processo è inconscio e generalmente non ce ne si accorge. Se chi chiede affetto in questo esmodo si rendesse conto della sua esigenza, non lo farebbe così, perché, come gli dimostra l’esperienza, ottiene meno risultati di quelli che vorrebbe. Per questo, come per tutti gli automatismi inconsapevoli, subentra la coazione a ripetere, a ritentare sempre in attesa di saziare il bisogno.

Se la persona che si lamenta si rendesse conto che sta cercando affetto e comprensione, lo cercherebbe in altro modo e, soprattutto, si accorgerebbe che non ha più quel grande bisogno. Infatti, l’affetto, da solo, conclude ben poco: se una persona si trova in difficoltà, perché povera o ammalata, darle soltanto coccole, carezze, e paroline dolci, non risolve, mentre occorre darsi da fare per ridurre lo stato di disagio.

Invece, molto spesso anche chi ha bisogno di aiuti concreti è abituato a cercare affetto, come faceva da piccolo, quando i genitori si occupavano di lui: adesso, tende a  dimenticare tanto che può fare qualcosa per se stesso, quanto che chi lo circonda non si occuperà mai di lui allo stesso modo dei suoi genitori, per cui finirà con l’avere solo delusioni.

Fino ad una settantina di anni fa, l’affetto era considerato in modo negativo, tanto nei danzaconfronti dei piccoli quanto nelle relazioni di coppia. Per le coppie di fidanzati, i gesti d’affetto erano pericolosi, perché inducevano ai rapporti prematrimoniali, quindi si evitavano, preferendo corteggiamenti pubblici generalmente ad una certa distanza. Dopo il matrimonio, la sessualità era più diretta e più frequente, e non esistevano preliminari. D’altro canto, anche per gli animali che, non avendo la coppia fissa, devono conquistarsi ogni volta, non ci sono preliminari affettivi, ma solo il corteggiamento, quell’esibizione, generalmente maschile, che sveglia i desideri femminili.

Sesso e affetto si sono collegati solo di recente anche se per molti, oggi, è inconcepibile il sesso senza l’affetto. Contrariamente a quello che si crede, la richiesta di affetto prima del sesso è funzionale alla possibilità di cambiare il partner, e non alla fedeltà. In passato, il sesso era solo dopo il matrimonio, e l’attesa di astinenza era sufficiente per prolegarantire un legame duraturo, consolidato tanto dalla cultura che impediva il divorzio, quanto dalla prole numerosa che richiedeva l’impegno di entrambi i genitori. Oggi, la libertà sessuale ha ridotto la pulsione, per cui lo scambio di attenzioni affettuose mira soprattutto a produrre un’eccitazione nel partner.

Anche l’affetto nei confronti dei piccoli, in passato era consentito solamente nei primissimi anni: come il bambino cresceva e diventava autonomo, si passava agli ordini ed alle sgridate. Per i poveri, c’era il lavoro minorile, che cominciava anche prima dei sei anni, e per i ricchi c’era l’educazione, generalmente affidata ad un estraneo alla famiglia, che non si lasciasse commuovere. L’affetto per i bambini era considerato pericoloso, perché consentiva le eccezioni, e quindi non formava la personalità alla tenacia e al senso del dovere. Con la diffusione della psicologia, nel dopoguerra, si sono sviluppati, soprattutto negli Stati Uniti, anche studi per la comprensione dei criminali, e questi hanno messo a fuoco la correlazione tra disadattamento sociale e mancanza di affetto. Di qui forti campagne di sensibilizzazione al bisogno d’affetto dei bambini, come se tutti befanafossero criminali potenziali nel caso non ne ricevessero in dosi abbondanti. Così si è passati dai regali limitati al compleanno e a Natale o Santa Lucia, ai regali quasi quotidiani; l’educazione punitiva, con cinghiate, botte e sculaccioni è stata via via abolita, fino ad essere vietata; in teoria, dovrebbe essere abolito anche il divieto ed il no, ma in pratica ogni tanto si sbotta, e tornano urla e sgridate, ma con sensi di colpa da parte dei genitori. Tutto questo ha ottenuto, e ottiene, soprattutto disorientamento e nostalgia del periodo in cui l’affetto era puro, come durante i primi due anni di vita, nostalgia che torna tutte le volte in cui le cose non vanno proprio bene.

Il guaio è che l’affetto non basta mai: l’affetto, infatti, non è concreto, non risolve, ma si limita a promettere. Tutti i gesti d’affetto fanno star bene perché promettono soluzioni, ma, da soli, non risolvono. Per il bambino, le coccole e gli abbracci promettono che verràbugia protetto e che ci si occuperà di lui; nella coppia promettono che il sesso sarà rispettoso e che la convivenza sarà attenta. Promesse. Che, per altro, non sempre vengono mantenute. Quindi l’affetto può configurarsi come un desiderio generico di protezione, che verrà soddisfatto soltanto quando la protezione ci sarà. In altri termini, il desiderio di affetto fuori da un rapporto di coppia, è destinato alla delusione e, spesso, alla depressione: se aveva senso quando si era piccoli, da adulti diventa un circolo vizioso in cui la mancanza alimenta la richiesta, ma non permette soluzione.

La nostalgia di affetto non si manifesta soltanto nell’elenco delle disgrazie quando si saluta un amico: di solito, il rimpianto dei tempi felici dell’infanzia finisce per colorare ogni momento della vita, impostando un confronto tra un presente più o meno cotechinodisastroso rispetto ad un passato decisamente migliore. I cibi non sono più buoni come una volta, le persone sono diventate cattive, e anche le stagioni non sono più come dovrebbero essere: con le debite variazioni sul tema, questi argomenti esprimono il disagio di una mancanza di affetto che non potrà essere colmata, e che congelano lo star male, perché non ammettono soluzioni. A chi si lamenta per un disagio che di fatto è determinato dalla nostalgia dell’affetto non vale proporre ragionamenti e documentazioni: la riprova che i tempi stanno solo peggiorando sta nel suo malessere che continua ad aumentare. Con chi si comporta in questo modo, l’unico aiuto consentito è la condivisione delle maledizioni al presente e l’andare a ripassare i bei tempi andati: ma questo comporta il “contagio” del problema, e quindi l’acquisire del malessere. Praticamente, accettare di parlare con chi si lamenta porta a star male con lui, senza prospettive di reale aiuto, dato che, invece, chi si rifiuta di condividere il rimpianto, viene immediatamente criticato ed accusato di ogni sorta di difetto, dall’incomprensione alla mancanza di documentazione, passando per l’incapacità di ragionare.

Purtroppo, chi soffre di nostalgia dell’affetto ricevuto durante l’infanzia non può essere farmacoaiutato direttamente: non si può farlo ragionare e, dato che non ritiene di avere un problema da risolvere, non accetterà mai di farsi aiutare. Ci sono gli antidepressivi ma, generalmente, occorrono dosaggi sufficienti per inibire almeno parzialmente il pensiero, altrimenti non ottengono effetti significativi sulla lamentela.

L’unica via che ho verificato funzionare in qualche caso ha comportato un percorso iniziato con la comprensione: occorre che la persona acquisisca fiducia nell’interlocutore e quindi per qualche incontro è necessario approvare le lamentele, aggiungendo documentazioni e riprove. Quando ci si accorge di essolidalesere seguiti, allora si può cominciare a forzare la lamentela: è vero che si sta male, ma c’è gente che sta peggio. Prima si affronta il tema in modo sfumato, e poi, man mano viene accettato, si orienta alla concretezza, verso impegni di volontariato: la solidarietà, che poi è un dare protezione per il quale spesso si è ricambiati con affetto e gratitudine, è forse l’unica strada che consente di uscire almeno in parte dalla nostalgia dell’affetto infantile.

Tutto questo, naturalmente, non va confuso con il sentimento di solitudine: la differenza sostanziale sta proprio nella lamentela, che non c’è per chi vive la solitudine come un problema. Ma di questo parleremo in altra occasione.

Pubblicato da

Alessandro Zucchelli

vedi www.sanzuc.it