«Siamo come nani sulle spalle di giganti»
Parecchi anni fa, allo zoo di Monaco, ho avuto occasione di osservare un meraviglioso orango gironzolare nello spazio riservato al suo branco, con una specie di sacco sulle spalle. Lo zoo di Monaco era già molto all’avanguardia, e gli animali vivevano in ambienti molto spaziosi resi artificialmente identici a quelli di origine, tanto per le variabili fisiche che per quelle biologiche. I suoi compagni lo guardavano senza particolare interesse. L’orango arrivò presso un albero, distese sul prato il sacco, che risultò essere un telo quadrato con due asole, opposte rispetto alla diagonale, ne prese una e la infilò su un ramo dell’albero. Poi prese l’altra asola, e la infilò sul ramo di un albero poco distante, ottenendone così un’amaca, sulla quale si arrampicò e rimase diversi minuti disteso e rilassato ad osservare i dintorni. Poi scese, staccò le asole dai rami, raccolse la sua amaca, e tornò a gironzolare col suo sacco sulle spalle.
Chissà quante volte i suoi compagni hanno potuto osservarne i movimenti, ma, nonostante i neuroni specchio, nessuno era riuscito ad imparare come servirsi di quel telo.
Trecentomila anni fa, millennio più, millennio meno, gli esseri umani avevano conoscenze poco superiori a quelle del mio amico orango di Monaco. Ma gli oranghi sono rimasti lì, mentre l’essere umano ha cominciato ad aumentare il proprio sapere.
Lo sviluppo della civiltà è stato consentito dalla parola: l’esperienza individuale, che per l’orango resta vincolata all’individuo, nell’essere umano viene trasmessa ai contemporanei ed agli eredi mediante i concetti espressi dalle parole.
Grazie alla parola, esperienze che hanno richiesto tempi lunghissimi per essere acquisite, vengono trasmesse in pochi minuti. Pensa al tempo che è stato necessario perché i nostri antenati riuscissero ad accorgersi che ogni 365 giorni il cielo stellato tornava quasi uguale, eccezion fatta per i pianeti: se sai che giorno è oggi, lo devi agli studi degli astronomi babilonesi, di circa quattromila anni fa.
L’essere umano, quindi, è molto più sociale di quanto si creda. L’orso è in grado di vivere da solo, l’orango ha bisogno della tribù, ma l’essere umano ha bisogno della storia: non gli basta stare con gli altri, per risolvere i problemi quotidiani del vitto e dell’alloggio, deve anche conoscere quanto gli antenati hanno imparato per passare dalla vita nelle caverne a quella attuale. Il linguaggio stesso, quello che utilizzi per pensare quando credi di essere da solo, è, invece, il legame profondo con tutte le persone che lo usano, che ne hanno definito i significati, e che ti hanno trasmesso l’esperienza.
Per questo, la solitudine è un vissuto, non una realtà: ogni persona è intimamente legata agli altri anche se, in qualche condizione, può riuscire a dimenticarsene, ma è solo una dimenticanza.
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