Pinocchio va da Freud

«Non ci sono santi senza passato né peccatori senza futuro»

(Agostino d’Ippona)

Sembra che, alle prime ore di un mattino del giugno 1881, un distinto signore tornasse a casa affranto e piangente, e indugiasse ad infilare la chiave nel portone, la mano tremante e la difficoltà nel controllare i gesti. Per caso, passava di lì un altro distinto signore che, mattiniero, andava al lavoro. I due si conoscevano, ed il nuovo arrivato cercò di informarsi sul motivo di tanta disperazione. A stento, il primo confessò il suo ludopatia2.jpgmaledetto vizio del gioco, tenuto nascosto agli amici, e di questa notte di sfortuna dove, nel tentativo di recuperare le perdite, aveva puntato anche la casa: questa era l’ultima volta in cui entrava, per prendere i pochi ricordi della madre appena morta, senza sapere dove poi sarebbe potuto andare. L’amico ascoltò attentamente, poi estrasse un blocchetto di assegni, scrisse una cifra, lo staccò e lo consegnò. Il primo era allibito. Va bene l’amicizia, ma quella cifra era decisamente troppo alta, e non avrebbe mai potuto restituirla. Ma l’amico lo confortò: «non è un prestito: è solo un anticipo sui diritti d’autore per il tuo prossimo libro».

Dopo quella notte, Carlo Lorenzini, detto Collodi, non giocò più, e si buttò su quella “bambinata” che divenne famosa col nome di “Pinocchio“, (qui il testo integrale) pubblicata Felice Paggi, l’amico che quella notte gli diede fiducia. Non sono sicuro che questo aneddoto sia vero, ma è verosimile, non solo per i dati biografici che sono riuscito a reperire, ma anche alla bettelheimluce della lettura di Pinocchio in chiave psicanalitica, secondo la tecnica di B. Bettelheim, in base alla quale ho già scritto due articoli (La potenza delle fiabe e Cappuccetto Rosso va da Freud). Per chi non ricordasse la storia,  qui c’è il testo integrale. È interessante notare come sia un racconto costruito a puntate, praticamente improvvisato, quindi più vicino, nell’organizzazione mentale, a quello del sogno, non progettato, ma sviluppato man mano si raccolgono e si organizzano i dati.

In questa luce, la storia di Pinocchio diventa il percorso di Lorenzini per chiudere con l’immaturità della ludopatia: dal pezzo di legno al burattino che, nella primissima pinocchio3versione, muore impiccato dagli assassini, al termine del XV capitolo, nel tentativo di custodire gli ultimi zecchini che gli aveva regalato Mangiafoco, e che avrebbe voluto moltiplicare nel campo dei miracoli. Dal punto di vista dell’autore, che per noi è anche il paziente che racconta il sogno allo psicanalista, lo choc della perdita di tutto il capitale, al punto da costringerlo ad un lavoro che da tempo rifiutava, è la decisione di farla finita con quella parte di se stesso che era troppo legata alla speranza del guadagno facile mediante l’azzardo.

Cresciuto nella villa Ginori, a Collodi, come figlio della cameriera e del cuoco di palazzo, non ha molta stima del padre, mentre ha un legame ambivalente con la madre, maestra ma ridotta a far la cameriera per vivere accanto al marito. Carlo è esuberante e ribelle, eVillaGinori.jpg rifiuta il lavoro, non apprezzando le fatiche del padre e, probabilmente, sognando le agiatezze dei signori presso i quali lavorava la famiglia. L’azzardo diventa quindi il criterio di Lorenzini, con la sua capacità di rischiare e di accettare le sconfitte. Tuttavia, l’azzardo da solo, in media, è perdente, e col passare del tempo si ritrova a doversi inventare la vita ogni giorno: nemmeno la pensione gli basta per una vita come vorrebbe, e si trova costretto a scrivere racconti bambini.

Nella storia originale di Pinocchio gli azzardi sono praticamente l’ossatura: da Geppetto che vuol costruirsi un burattino per andare per il mondo a guadagnare senza fatica, a Pinocchio che vende l’abbecedario per andare a vedere i burattini, agli zecchini da giocare con il Gatto e la Volpe. Il burattino da eliminare è quell’intelligenza vivace di Carlo Lorenzini che gli ha sempre permesso di mettere in dubbio le regole, ma che proprio per questo gli ha impedito di costruire qualcosa.

pinocchioPaggiI lettori, tuttavia, non ci stanno alla conclusione di Pinocchio impiccato: se Lorenzini pensava di essere il solo ad avere questi problemi, l’editore gli richiede una continuazione, perché anche i bambini, intelligenti, si trovano nel bisogno di sapere come trovare regole valide sulle quali costruire l’autonomia. Il successo di Pinocchio, probabilmente, sta proprio qui, nella proposta di un percorso per diventare autonomi e maturi, partendo a una condizione di intelligenza senza controllo. Comincia così la seconda parte, più costruttiva. Compare la Bambina dai Capelli Turchini, premessa della Fata, e simbolo della figura materna, troppo protettiva, ma che comincia ad imporre la regola della medicina: Pinocchio cerca di adattarsi, ma ogni pretesto è buono per rifiutare le norme. I tentativi sono diversi, e per ciascuno si potrebbe analizzare il simbolismo, dall’evoluzione della figura della Fata Turchina ai vari personaggi che intervengono, fino all’episodio di Lucignolo ed il Paese dei Balocchi. Qui torna la vicenda dell’impiccagione del XV capitolo, ma più diluita ed approfondita. La tensione verso l’azzardo e la possibilità di giocare senza lavorare porta a mutare la natura, da burattino autonomo, senza fili, a ciuchino costretto ad ubbidire a tutti. Mentre la prima volta, con l’impiccagione, è la Bambina dai Capelli Turchini che lo salva, adesso la vicenda diventa più complessa, i pericoli si alternano, fino a tornare burattino perchéPinocchio4 finito in fondo al mare dove la pelle viene mangiata dai pesci, ed è così che finisce nella pancia del Pesce-cane.

La novità sta proprio qui: invece di morire, come nella prima versione, Pinocchio ritrova Geppetto nella pancia del Pesce-cane. Qui i due si aggiornano sulle vicende trascorse, e poi Pinocchio si carica sulle spalle Geppetto e lo porta in salvo, dopo di che, per amore del padre, si mette a lavorare e anche a studiare. Viene anche a sapere che la Fata dai Capelli Turchini non sta bene, e lavora il doppio, per poter mantenere entrambi, ed è così che un bel mattino smette di essere un burattino e diventa un ragazzo in carne ed ossa. Mentre nella prima versione, si trattava di rinunciare ad una parte di sé, nella stesura finale c’è la valorizzazione di tutto, e il nuovo ragazzino è conseguenza della storia del burattino.

Il simbolo più importante, in tutta la storia, è quello della figura paterna: partito come geppettopersonaggio irascibile e sognatore, Geppetto diventa, in nome del figlio, mite e generoso, incapace di farsi rispettare, ma capace di donare tutto e di perdonare sempre. Pinocchio, inizialmente, lo vede come inarrivabile, onnipotente nel risolvere i problemi, e rompiscatole per le prediche. Al termine, invece, gli appare in tutta la sua umanità e debolezza, diventando esemplare per quanto aveva fatto, tanto da indurre Pinocchio a lavorare duramente, pur senza che nessuno glielo chieda. Il passaggio, dal sogno di diventare ricco per un evento fortunato, un azzardo o il gioco, alla capacità di lavorare sodo e di risparmiare, avviene mediante il riconoscimento del valore della figura paterna. Mentre la madre, anche per il Lorenzini, aveva favorito la creatività e l’intelligenza, ma non la maturità, ecco che il recupero, pur in tarda età, dei valori della figura paterna, permettono di apprezzare la fatica ed il sacrificio come fondamenti per l’autostima e la valorizzazione dell’intera personalità.

Non tutte le ludopatie hanno questa origine, ma, nel caso GattoVolpe.jpgdi Lorenzini, l’intelligenza e la scarsa stima nei confronti del padre costretto a lavorare con tanta fatica per mantenere la famiglia, lo hanno indotto a ricercare sistemi più facili e redditizi, scontrandosi contro la realtà e l’avidità dei giocatori professionisti, ben delineati nelle figure del Gatto e della Volpe. Recuperare l’ammirazione nei confronti del padre, scoprendone il valore come persona concreta, diventa, per Lorenzini, la via per il recupero delle proprie capacità e della propria autostima.

Pubblicato da

Alessandro Zucchelli

vedi www.sanzuc.it