«Chi vuol solo aver ragione resterà solo, con la sua ragione»
Negli anni ’70, quando lavoravo presso il Centro di Orientamento di Bergamo, utilizzavoun questionario, il «Mental Health Analysis», che comportava anche una scala per misurare la tendenza a barare da parte del soggetto esaminato. Per esempio, chi rispondeva di sì alla frase “non ho difficoltà ad ammettere di avere torto“, riceveva un punto di demerito, dato che, invece, è molto difficile ammettere di avere torto. Con questo, ci sono persone che non riescono proprio a rinunciare ad avere ragione.
Il primo problema sta nel pensiero, che non è in grado di conoscere tutta la verità. Ci sono affermazioni che si possono considerare vere (“sta piovendo“; “se perdi il treno arrivi in ritardo“; eccetera), ma raramente i ragionamenti più complessi portano ad una verità indiscutibile. Se all’interno della matematica o della geometria si possono costruire ragionamenti inconfutabili, quando si pensa di poter utilizzare il medesimo pensiero per questioni di vita quotidiana si è spesso costretti a perdere il rigore logico, perché intervengono aspetti emotivi che hanno importanze individuali. Se il bilancio di una famiglia è costituito da numeri e da operazioni certe, diventa invece difficile dimostrare come sia preferibile investire in azioni piuttosto che comprare una lavatrice nuova, perché in questa scelta entrano previsioni incontrollabili sul futuro, e preferenze emotive verso una delle due soluzioni. A maggior ragione se si discute di calcio o di politica: se si potessero seguire ragionamenti coerenti in questi due argomenti, la conseguenza sarebbe che tutte le persone intelligenti tiferebbero per una sola squadra e voterebbero per un partito solo. Invece, dato che nei ragionamenti di vita quotidiana non si riesce ad essere rigorosi come quando si dimostra un teorema di geometria, dato che intervengono variabili emotive non quantificabili, e dato che i co
ncetti sui quali si ragiona non ammettono definizioni altrettanto precise quanto quelle della matematica o della fisica, ecco che da premesse accertate è possibile trarre conseguenze ragionate differenti: il marito vorrebbe investire e la moglie vorrebbe la lavatrice; Tizio tifa una squadra e Caio un’altra, eccetera, senza che con questo uno debba essere più intelligente dell’altro.
E già qui ti accorgi di essere in difficoltà: questo ragionamento sta dimostrando che non hai ragione, e la prima tentazione è quella di andare a cercare gli eventuali errori che ti permettano di recuperare la sicurezza e la fiducia nel tuo modo di pensare. Tranquillo: non è possibile. Non perché io sia sicuro che non ci sono errori nel mio ragionamento, ma perché non esistono due persone intelligenti che la pensino allo stesso modo, anzi, più sono intelligenti, più hanno idee diverse in politica, in economia, sulla religione, eccetera.
Possiamo dedurre che la prima difficoltà di chi non ammette di avere torto è il suo dubbio sulla propria intelligenza: chi è convinto che ci sia un solo modo di ragionare, il suo, tende a ritenere che chi la pensa in modo diverso da lui sia meno intelligente e, quando si trova a dover riconoscere di non poter dar torto ad altri, teme di doversi rassegnare a qualificarsi come meno intelligente. Di fatto, anche se l’intelligenza aiuta nel ragionamento, sono troppe le variabili emotive che intervengono nei ragionamenti di vita quotidiana per poter arrivare ad un pensiero universale inconfutabile. E, nel caso tu volessi darmi, torto, confermeresti questa tesi, che non è vera, ma è un limite al pensiero.
Ma c’è di più. Generalmente, chi non tollera di avere torto non ama i ragionamenti meticolosi, passo – passo, che costruiscano la conclusione mediante conseguenze razionali derivate dalle premesse: di solito arriva velocemente alla affermazione finale, dandola per inconfutabile solo perché nel suo pensiero gli appare così. E questo è un problema di comunicazione: chi vuole aver solo ragione, quasi sempre non sa comunicare il proprio ragionamento, non solo perché è fondato su troppe componenti emotive, ma anche perché è rimasto molto legato alla modalità di relazione appresa nei primissimi anni di vita.
Prima di cominciare a parlare, esisteva comunque una comunicazione tra il neonato e gli adulti: il piccolo disponeva di pochissimi segnali, il pianto, il riso, e poco altro, ma gli adulti capivano e provvedevano comunque ai suoi bisogni. Questo ha definito, in ciascuno di noi, un legame profondo tra l’atteggiamento di chi ascolta e l’impressione di essere capiti: per il neonato, era evidente che chi lo amava, come la madre, lo capiva anche se lui non sapeva parlare. Di qui un riflesso condizionato attivo anche da adulti, che può essere espresso dalla regola “se mi ami, allora mi capisci“, con le sue variazioni “se mi capisci, allora mi ami“; “se non mi ami, allora non mi capisci“; “se non mi capisci, allora non mi ami“. Questo riflesso colora la vita quotidiana ed è il motivo per cui, nelle discussioni, si tende ad arrabbiarsi: bisognerebbe ricordare che, se non si è d’accordo, probabilmente ci sono degli equivoci, invece parte il riflesso per cui “se non mi capisci, allora non mi ami“, e si passa dal piano della comunicazione a quello della lite, tra persone, almeno provvisoriamente, convinte di odiarsi.
Ecco… chi non ammette di aver torto, raramente ne è consapevole: di solito è convinto di essere tollerante e di saper ascoltare il parere degli altri. Ma se non gli si dà ragione, si offende, perché si sente non capito, e quindi non amato: tende a ritenere che chi non gli dà ragione lo faccia per fargli dispetto, per essergli ostile. Quindi non si preoccupa di spiegare meglio il proprio pensiero, di fornire motivi per convincere: sostiene la propria idea accanitamente, e spesso si altera, proprio perché si sente attaccato.
Purtroppo, è molto difficile che queste persone cambino modo di pensare: anche se non si tratta di patologia, di fatto tendono a sentirsi perseguitate, proprio in seguito all’equivoco sulla comunicazione, e non sono disponibili a mettersi in crisi, perché sono di parer contrario rispetto a chi fa notare loro il problema. L’unica uscita, quindi, è lasciar loro la ragione, visto che ci tengono tanto, ed evitare di manifestare pareri differenti, perché, tanto, non modificheranno le loro idee.
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