«Lo scopo dell’educazione è quello di trasformare gli specchi in finestre»
(Sydney J. Harris – Giornalista – 1917/1986)
La diagnosi, in medicina, serve per decidere la cura, e l’evoluzione della medicina è passata dall’aumento di precisione nella diagnosi. La scoperta dei batteri (1880) da parte di Pasteur, ha consentito di classificare in modo nuovo molte malattie, e di arrivare presto (1928 – Fleming) al loro trattamento risolutivo, tanto che molte malattie che in passato mietevano migliaia di vittime, come il vaiolo o il colera, oggi sono praticamente scomparse.
Per arrivare alla diagnosi occorre capire la causa, il motivo per cui si genera il disagio o la malattia, e sono stati necessari millenni di cultura per orientare il pensiero alla ricerca di quelle cause che sono in grado portare alla guarigione. Per esempio, tutte le religioni si sviluppano cercando un rapporto tra la divinità e la guarigione. Per gli antichi Greci e gli antichi Romani erano Apollo, ed in particolare suo figlio Esculapio, ad occuparsi della salute, ed a loro venivano dedicati santuari e centri di cura. In Oriente, come presso le culture islamiche, la causa della malattia è riferita ad uno squilibrio tra mente e corpo, dovuto all’allontanarsi della mente dalle regole definite dalle relative religioni. Anche per i cattolici il legame tra malattia e religione è profondo, tanto che si sono sviluppati i santuari come Lourdes o Fatima, dove la guarigione viene demandata all’intervento della Madonna; e solo gli ultimi papi hanno ammesso di rivolgersi alla medicina allopatica per curare le loro malattie: fino a Pio XII nulla si sapeva dello stato di salute del pontefice, troppo legato, per cultura, alle conseguenze del peccato.
Accettare quindi di cercare cause fisiche per le malattie, in base allo studio scientifico e rigoroso dell’anatomia, della biologia e della farmacologia è una rivoluzione ancora poco assimilata dalla cultura e, nonostante gli enormi successi di questo metodo rispetto ai precedenti, viene visto ancora, spesso, con sospetto, proprio da chi preferisce cercare cause di tipo “religioso” alle malattie.
Per la psicologia siamo ancora più lontani, perché la ricerca delle cause è ancora più difficile. Anche qui, la tradizione abbina il disagio psicologico alla religione, dagli esorcisti alla cura spirituale: impostare una ricerca scientifica e materialista è visto ancora da molti con sospetto e diffidenza. Per altro, dato che la medicina ha recuperato comunque molto spazio, la disciplina intermedia, la psichiatria, sta cercando di impostare criteri medici anche per la ricerca psicologica.
In tutto questo caos di teorie e di ricerche, la scelta che sta avanzando è quella che si fonda sul criterio «ex juvantibus», che consiste nel definire una malattia in base al tipo di trattamento che risulta efficace. Il metodo ha consentito notevoli soluzioni, per esempio nel campo delle allergie, quando si affrontano temi difficili da approfondire biologicamente. Invece, i tentativi in ambito psicologico stanno cominciando a cedere: il DSM, il catalogo delle malattie mentali che viene pubblicato periodicamente dall’Associazione degli Psicologi Americani, arrivato ormai alla 5ª edizione, è diventato scomodo e molto difficile da utilizzare, per l’eccesso di termini e di definizioni.
La mia scelta è quella di escludere, prima di tutto, le cause organiche: non sono medico, e lascio a lui la precedenza. Troppo spesso si attribuisce alla psicosomatica o a motivi psicologici quello che di fatto ha origine fisiologica e che può essere curato e risolto mediante la medicina. Per giunta, non è raro che malattie gravi, come il tumore, ma anche le cardiopatie, si presentino, inizialmente, con sintomi simili a conseguenze di stress o di ansia: anche per questo, io voglio che la medicina escluda cause differenti da quelle che può curare lei, prima di occuparmi del problema. In questa luce, va esclusa anche ogni componente di tipo neurologico: quello che una volta si chiamava “esaurimento nervoso“, per esempio, ha certamente risvolti di tipo fisiologico, che vanno risolti con le competenze del medico.
In questo modo, risolvendo l’aspetto fisiologico, resta il problema psicologico, che preferisco chiamare disagio, invece che malattia. Il disagio non si guarisce: si risolve. Quindi è necessario prima di tutto andare a capire il motivo per cui la persona non sta bene. Se escludiamo le cause fisiologiche, il disagio ha un solo tipo di origine: il disadattamento: comportamenti appresi perché funzionali durante l’infanzia, che non sono più così efficaci nell’età adulta. La soluzione del disagio di tipo psicologico, quindi, è di tipo educativo, non psicoterapeutico. O, se vogliamo, la psicoterapia è una modalità educativa che porta la vestaglia del medico.
Il fatto che un problema educativo venga affrontato con strumenti derivati dalla medicina comporta tutti i problemi delle psicoterapie: tecniche costruite in base al metodo dell’«ex juvantibus» che vanno bene per una persona e non per l’altra, e strumenti di ricerca inadeguati al problema. Di qui la ricerca statistica e la conseguenza che, per definizione, se un tipo di psicoterapia ha il 70% di risultati positivi, comporta che nel 30% degli interventi, non funzioni.
L’educazione è, invece, un’arte che si fonda su molte conoscenze, psicologiche, mediche, ma anche sociali, storiche e tecnologiche, vista l’era in cui viviamo. Le tecniche educative si studiano anche all’università, e non sono difficili. Ma per aiutare, l’importante è il punto di vista, quello di chi non fa diagnosi, ma cerca di capire, momento per momento, passo per passo, quali sono le capacità da valorizzare per superare le difficoltà che creano il disagio. In fondo, la diagnosi è una fotografia della persona, un giudizio… mentre, per aiutare, occorre ricordare che «chi giudica non capisce: chi capisce non giudica».
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