Quanto è facile litigare

«Pace in terra agli uomini di buona volontà»

(Lc, II, 14)

Quando si vuole insultare qualcuno, si hanno diverse possibilità: si può dare un giudizio sulla moralità dei parenti e della madre in particolare, si può cercare di fbestemmiaerirlo insultando la sua fede, o alludendo a qualche caratteristica fisica/estetica. Una delle provocazioni più frequenti riguarda un giudizio sulla sua intelligenza: circa il 30% degli insulti riportati dalla ricerca qui sopra citata, fanno riferimento, poco o tanto, alle carenze intellettive.

Anche durante le discussioni, il primo grado di insulto è quasi sempre il riferimento alle capacità di pensiero che, lungi dal dirimere la controversia, è generalmente solo la premessa per offese più pesanti, se non si arriva alle mani.

Per alcune persone, poi, è inaccettabile l’idea di avere torto, e sicuramente conoscerai medicolegalequalcuno che, per poter avere sempre ragione, non solo ha rinunciato alle amicizie, ma evita anche di andare dal medico o da altri esperti nel timore che gli diano torto. Spesso, il motivo che trattiene maggiormente dal consultare uno psicologo è proprio l’idea di sentirsi dire di aver sbagliato tutto, di avere torto… e si preferisce star male pur di avere ragione.

Si direbbe che il bisogno di aver ragione sia una questione di intelligenza: come se, soprattutto per qualcuno, il terrore di passare per deficiente possa essere insopportabile. Tuttavia, se provi ad immaginare sulla tua pelle l’effetto di sentirti darconflittoe del deficiente, ti accorgi che magari ti fa arrabbiare, ma non ti mette per nulla in dubbio l’autostima in merito alle tue capacità mentali. Anche quando ti danno torto, non metti in gioco dubbi sulla tua intelligenza, ma, piuttosto su quella di chi non accetta il tuo ragionamento, per cui è molto improbabile che il senso vero dell’insulto sia legato ad una svalutazione del Q.I.

Per capire di più su questo strano fenomeno che lega la conflittualità alle valutazioni sull’intelligenza o al dare torto piuttosto che ragione, occorre, a mio parere, partire da studioneonataleconsiderazioni più lontane, legate all’apprendimento dei processi comunicativi.

La prima esperienza di comunicazione si ha nei confronti della madre o di chi per lei, che affronta e risolve i primi bisogni del neonato. Dal punto di vista del bambino che, come già osservava R. Spitz, si vive come il centro di quanto percepisce, la comunicazione viene appresa dalle risposte che riceve in seguito alle sue esigenze. Se ha fame, sonno, sete, caldo, freddo, dolore, o qualsiasi altra esigenza, allora piange, ma non si sforza di modulare il pianto a seconda del bisogno. Si lamenta, e basta. (Se, in seguito ai suoi lamenti, nulla madrecambia, allora è molto improbabile che il bimbo riesca a sopravvivere, e, se la soluzione ai suoi problemi arriva troppo tardi, si verificano psicopatologie che rendono praticamente impossibile lo sviluppo della comunicazione con gli altri).

Nella quasi totalità dei casi, invece, qualcuno risponde al lamento del bimbo, e risolve:  quasi sempre, ma non necessariamente, si tratta della la madre. Da queste esperienze parte un legame profondo tra l’espressione del bisogno, e la risposta che viene fornita: il bambino non si sforza di farsi capire, ma la madre lo capisce e risolve il problema.

Questa esperienza si ripete tante volte ogni giorno, per tutta l’infanzia. Col tempo, il bambino impara ad esprimere sempre meglio le sue esigenze, ed il mondo esterno lo stimola sempre più verso l’autonomia e la capacità di cavarsela il più possibile da solo, ma il periodo infantile lascia, come è noto, tracce difficilmente cancellabili. Per giunta, neonatopiangetra tutti gli animali, tuttavia, l’essere umano è quello che richiede maggior quantità di tempo per il raggiungimento di una propria autonomia, comunque, non meno dei dieci mesi necessari per imparare a camminare, e quindi dieci mesi di assoluta dipendenza dalla figura materna.

D’altro canto, il mondo che circonda il bambino non è una macchina che risponde con esattezza e con la stessa precisione ad ogni bisogno: la madre, in quanto vivente, risentirà di maggiore o minore stanchezza, e dei propri problemi col mondo esterno, di relazione con gli altri adulti, eccetera. Per questo, dal punto di vista del bambino, che sa di esprimere il lamento in modo proporzionale al proprio disagio, verrà classificata la disponibilità della madre collegandola alla qualità della soluzione ricevuta. Ne deriva così una regola, che si radica nel sistema nervoso profondo del bambino, che può suonare pressappoco così: «Quando mi vuoi più bene, allora mi capisci meglio, e risolvi le mie esigenze con maggiore precisione».amaCapisca

Col tempo, e con il moltiplicarsi delle esperienze, la regola tende a trasformarsi in una chiave di lettura del comportamento altrui, e può riassumersi nella formulazione generale «Chi mi ama, mi capisce», in termini proporzionali: più mi ami, più mi capisci, e quindi con i corollari, sempre proporzionali, «Chi mi capisce, mi ama», «Chi non mi ama, non mi capisce», «Chi mi non capisce, non mi ama».

Le relazioni tra le persone tendono quindi ad essere influenzate dal legame, stabilito fin dalla primissima infanzia, tra il sentirsi capiti ed il sentirsi amati, accettati, essere amici, complici, alleati.

Quando ci si sente capiti, ci si sente amati: è il tranello della maggior parte delle relazioni affettive. Ci si lega perché ci si sente capiti, e fino a che si tratta di rinsaldare il legame, ci si sforza di capirsi oltre le umane possibilità. Salvo poi, dopo la definizione del legame, per esempio col matrimonio, smettere di fare la fatica di intuire dietro alle parole, e capovolgere la relazione: non mi capisci più, quindi non mi ami più.

Nelle discussioni, il fatto di non trovare un accordo comporta un riferimento all’antica esperienza neonatale, connotata dall’angoscia: «se non mi capisci, non mi ami, e se non mi capisci è perché mi odi». Quando non ci si capisce, la soluzione razionale sarebbe quella di capire che va migliorata la comunicazione, aumentando le spiegazioni e cercando di capire il motivo per cui l’interlocutore preferisce una soluzione differente. Quando si riesce in questo obiettivo, tutto si sistema: è questa la strategia degli esperti di mediazione, far capire agli interlocutori i reciproci punti di vista. Ma se si entra nelodio meccanismo radicato profondamente fin dai primissimi anni di vita, allora si imputa all’interlocutore la colpa premeditata di non voler capire, che diventa documentazione e riprova di un odio che va combattuto.

Ne deriva che chi fugge l’aver torto nasconde la nostalgia di un amore infantile che lo capisca e lo comprenda e, ponendosi dal suo punto di vista, non richieda altre spiegazioni perché aderisce al suo pensiero. Presupporre di non essere comprensibili, come avviene per chi teme di confrontarsi con un esperto, nasconde la pretesa, riconosciuta irrealizzabile, di un amore incondizionato, che accetta il bimbo per come è, e previene ogni sua esigenza fornendo la risposta adeguata. Un sogno rimasto congelato nel profondo, una carenza affettiva circondata da una corazza robusta che le impedisce di accedere alla realtà e che fa soffrire come una spina rimasta sotto la pelle, che fa male ma non si riesce a trovare.

Nel caso ti riconosca tra le persone che tollerano di aver torto, il primo passo da fare è accorgersi che nella maggior parte dei casi questo non è dovuto acuoreGhiaccio rancore da parte dell’interlocutore, bensì a difficoltà di comprensione reciproca. Imparare a spiegarsi meglio è un percorso semplice, anche se non immediato. Riducendo le incomprensioni, anche la nostalgia profonda di un amore che capisca tutto troverà il modo di sciogliersi. Spesso occorre un bel pianto, che arriva quando meno ce lo si aspetta, quando si è tranquilli e si lasciano emergere i ricordi, magari ascoltando una musica che piaccia molto, o riprendendo immagini dell’infanzia. Anche un confronto con una persona esperta, che non giudichi ma sia orientata alla comprensione all’aiuto, può portare ottimi risultati in tempi brevi.

Pubblicato da

Alessandro Zucchelli

vedi www.sanzuc.it