4 spunti e ½ per comunicare meglio

«È impossibile parlare in modo tale da non essere frainteso»

(K. Popper)

L’esperienza di essere stati capiti da nostra madre fin da quando eravamo incapaci di mammaFiglio1parlare, ha indotto a pensare di essere naturalmente capaci di comunicare, e di dare agli altri la colpa quando non ci si sente capiti. Tuttavia, quando i problemi di comunicazione comportano conseguenze importanti, come la conclusione di una trattativa commerciale, o la vita di coppia, o l’educazione, allora è il caso di far ricorso agli studi, ed approfittare di quanto già emerso.

La prima riflessione riguarda la Legge Fondamentale della Comunicazione di cui ho già parlato in un articolo precedente: «è chi riceve il messaggio, colui che gli attribuisce il significato», è chi ascolta che decide, inconsapevolmente, il significato di ciò che ascolta. Sembra una banalità, ma quando si parla si cerca soprattutto di esprimere bene i propri pensieri, dimenticando che è l’interlocutore colui che stabilirà, in perfetta buona fede, il senso di ciò che gli viene detto. Per questo, è più importante immaginare il punto di vista dell’interlocutore, e chiedersi cosa sia disposto a capire, piuttosto che ricorrere a crisiCoppiaragionamenti che verranno fraintesi e aumenteranno le distanze. Quando si è d’accordo, ciascuno aggiunge un pensiero all’opinione comune, e la sintonia aumenta, ma quando l’accordo non c’è, allora si tende a precisare le proprie convinzioni più che a cercare il dialogo, dimostrando a se stessi di avere ragione, invece di aiutare l’interlocutore a modificare il proprio punto di vista. La maggior parte delle liti dipende proprio da questo, dal fatto che entrambi i comunicanti mirano più a convincere se stessi della validità dei propri argomenti, che non a cercare argomenti graditi all’interlocutore.

Il secondo spunto che propongo riguarda una tecnica per dire senza dire: l’implicazione, scarpespaiateo sottinteso. Se, sul lavoro, incontri una persona con le scarpe spaiate, o con la giacca abbotonata all’asola sbagliata, intuisci subito che probabilmente è distratta e poco attenta a come si presenta agli altri, prima ancora che cominci a parlare (a meno che non si tratti di Lapo e del suo amore per le trasgressioni). Praticamente, le scarpe spaiate “implicano” che la persona non pensava a quello che stava facendo quando le ha indossate. L’implicazione è una provocazione al pensiero dell’interlocutore, perché ne tragga qualche conseguenza: generalmente è affidata al caso, ma può essere impostata da chi vuol gestire meglio la comunicazione. I detectives chiamano “deduzione” la loro capacità di andare a caccia di implicazioni involontarie, ma, appunto, è possible decidere di inserire implicazioni nella comunicazione, e orientare meglio l’interlocutore verso gli obiettivi che ci interessano. Naturalmente, occorre un po’ di allenamento per inserire le implicazioni deliberatamente, ma, se ti interessa e non ti scoraggi subito, ci riuscirai. Soprattutto, ricorda che perché l’implicazione venga colta, occorra che rientri nelle attenzioni della persona cui è destinata. Un interlocutore trasandato non si accorgerà se hai le scarpe scompagnate, mentre uno stilista di moda potrebbe trarre impressioni su di te anche dall’abbinamento tra la cravatta ed i calzini. Così, un’implicazione sull’hobby di Perisic può far pensare ad un appassionato che tu lo conosca particolarmente bene, mentre per non segue il campionato di serie A rischia di farsi l’idea che tu voglia esibire una cultura noiosa per il tuo interlocutore.

L’implicazione è utile, soprattutto, quando si tratta di fornire informazioni in merito a se stessi, evitando di vantarsi esplicitamente, ma definendo alleanze con chi segue i selfiemedesimi argomenti. Serve anche per dar modo all’interlcutore di intuire che non è il caso di avventurarsi su argomenti che chi parla conosce bene. L’implicazione aggiunge colori al quadro della comunicazione e, con l’esperienza, diventa uno strumento prezioso per ridurre gli equivoci, fornendo dati in merito a se stessi. Importante ricordare che spesso l’implicazione viene compresa solo a livello inconsapevole, andando a costruire il vissuto dell’interlocutore nei confronti di chi l’ha impiegata, creando la base di una fiducia (o sfiducia, a seconda di come viene gestita) che poi determinerà la realzione.

Terzo spunto: il paradosso. Immagina la ragazza che dovesse dire ad un innamorato che la perseguita: «se è vero che mi vuoi bene, dimenticati di me!». Dal punto di vista dell’uomo, stalkerquesto comporta che, qualsiasi cosa faccia, sbaglia: se insiste, dimostra di non amare, ma se smette, non ha più la possibilità di dimostrare il suo amore. I paradossi, nella comunicazione, sono quelle frasi che, utilizzando il contesto in cui vengono affermate, rendono impossibile continuare la relazione. Il contesto è determinante: perché la frase della ragazza sia così devastante, è necessario che il destinatario del paradosso sia innamorato; per contro, se, per esempio, si trattasse di un agente del fisco, non avrebbe alcun effetto.

Non è facile creare paradossi, perché occorre che ci sia la condizione favorevole, che spesso è fugace, ed il loro effetto è di blocco. Per questo è, invece, importante saperli riconoscere, e ricordare che, per superarli, diventa perdente restare sul messaggio, corteggiatomentre occorre intervenire sul contesto. L’innamorato che rispondesse al paradosso con una frase del tipo «adesso che mi ci fai pensare, conosco almeno tre ragazze più interessanti di te, cui posso dedicarmi» avrebbe buone probabilità di diventare presto oggetto delle attenzione della sua amata. Cambiando il contesto, in questo caso uscendo dalla condizione di innamorato almeno per dare la risposta, il paradosso perde valore, e può anche ritorcersi contro chi l’ha imposto.

Il quarto spunto riguarda l’interruzione, uno strumento molto usato dagli animali quando intendono negare, che funziona egregiamente anche nella comunicazione tra esseri umani. La negazione è possibile soltanto nel linguaggio verbale, perché è astratta: caneRifiuta2non si può trasmettere, senza ricorrere alle parole, un messaggio del tipo «non venire qui!».

L’animale che intende negare, appena può ricorre all’affermazione del contrario. Se si vuol portare un cane dal veterinario di cui avesse paura, l’unico modo che ha l’animale per esprimere la propria intenzione è quello di puntare le zampe ed affermare che vuole restare fuori.

Tuttavia, ci sono situazioni in cui l’affermazione del contrario non è sufficiente: quando c’è pericolo di litigio, allora rifiutarsi di combattere comporta il significato evidente di resa, e non è quindi accettabile da chi vuole la pace ma non intende cedere. Per questo l’animale, prima che la lotta diventi inevitabile, ricorre all’interruzione del gesto: caneMordicchiatipicamente, chi ha dimestichezza con i cani, sa che un gesto di pace apprezzato è porre la propria mano in mezzo alle fauci dell’animale, così che questi possa interrompere il gesto del morso. Avvicina i denti per far sentire che potrebbe mordere, ma li arresta, dimostrando la sua intenzione di pace. In questa ottica è possibile cogliere in tutti i gesti di affetto la componente dell’interruzione di un assalto: la carezza come schiaffo interrotto, il bacio come morso interrotto, l’abbraccio come stritolamento interrotto, eccetera.

L’interruzione è quindi un comportamento che comunica il contrario del gesto che viene interrotto: il brindisi, che se non fosse controllato porterebbe i cristalli ad infrangersi, comuninca che si propone di bere mantenendo la padronanza e la pace, senza il rischio che l’ubriachezza porti a esagerazioni pericolose. Non è detto che l’interruzione venga lanciobimbocolta fin dalla prima volta: soprattutto quando si tratta di un attacco interrotto,  l’interlocutore potrebbe non capire che c’è stata la decisione di non portare a termine, e potrebbe dedurre che l’incompletezza sia dovuta a timore o ad altri motivi. Per questo è utile ripetere le interruzioni, senza scoraggiarsi, e badando bene a rendere evidente che l’assalto viene troncato deliberatamente e non per timore. Un esempio classico è la sculacciata: quando fa molto rumore e quindi non fa male (come l’applauso), comunica al bambino che si potrebbe procurargli molto dolore, e invece è solo chiasso, perché l’importante è che non faccia più ciò che ha provocato la punizione, e che capisca che gli si vuole bene, motivo per cui non gli si fa male.

L’interruzione è efficace soprattutto quando si è in condizione di forza, per esempio tra genitori e figli, e viene compresa soprattutto a livello inconsapevole, creando quindi le premesse per una stima profonda che cresce nel tempo.  Un impiego efficace comunicazionedell’interruzione comporta comunque un’adeguata riflessione, soprattutto perché deve valere dal punto di vista di chi la riceve. Occorre, cioè, dimenticare il proprio modo di vedere le cose, ed immaginarsi al posto di chi assisterà all’interruzione, per progettare un intervento adeguato e di successo.

E siamo arrivati al mezzo spunto… che non è intero solo perché non riguarda esattamente la comunicazione, ma il modo di usarla, e la riflessione è orientata al modo di pensare. Si tratta di un errore molto comune, sostenuto dalle religioni, ma spesso anche dalla stampa e soprattutto dalla letteratura più diffusa: quello di dividere, per comodità e semplificazione, la popolazione in due grandi classi. Da una parte i buoni, generalmente pochi, e dall’altra i cattivi, tutti gli altri, come se una persona potesse essere solo buona o solo cattiva. Si tratta forse della trappola mentale più disastrosa, buoniCattiviperché porta, in fondo all’isolamento. Da una parte ci sono io e qualche mio amico, ma con cautela, e dall’altra ci sono tutti gli altri: io sono buono, ingenuo, in buona fede, sincero fino a che non sono costretto a mentire, onesto fino a che posso sopravvivere, eccetera. Dall’altra ci sono i cattivi, astuti, in cattiva fede, bugiardi professionisti e disonesti fin dal profondo. L’abitudine a pensare in questo modo rende difficile la comunicazione perché, come hai visto, la chiave più efficace nel gestire le relazioni consiste nel cogliere il punto di vista dell’interlocutore. Solo se riesco a mettermi dal suo punto di vista posso immaginare come capirà i miei messaggi, come scegliere le implicazioni utili, come potrò uscire dai suoi paradossi, e quali assalti interrompere per costruire la pace. Ma se sono convinto che sia cattivo, o bugiardo, o determinato ad essermi nemico per principio e senza motivo, ecco che diventa impossibile utilizzare le tecniche della comunicazione, e le relazioni rimangono affidate al caso, invece che alla decisione di costruirle e consolidarle.

Per questo, da tempo ho assunto come criterio fondamentale delle mie relazione il postulato per cui «non esistono persone cattive». Questo non significa che non esistano chiGiudicapersone che fanno del male: tutti facciamo del male agli altri, ma nessuno lo fa perché è strutturalmente cattivo; ciascuno lo fa perché mira ad un bene diverso da quello cui sono stato educato, e non perché intende fare del male. Con questa chiave di lettura diventa possibile lavorare sul cambiamento, e aiutare chiunque a stare meglio con se e con gli altri.

Pubblicato da

Alessandro Zucchelli

vedi www.sanzuc.it